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Recensioni: Testimonianze

Giù dal vivo / Il film della settimana

Arcireport numero 23_2019

«Hauntology» è il termine che mi è venuto alla mente vedendo l’opera seconda di Nicoletti. Non nel senso coniato da Derrida,


ma nell’accezione accolta dal mai abbastanza rimpianto Mark Fisher: la nostalgia di un futuro appena fuori dalla nostra portata e l’impossibilità del presente.

Una giovane donna spaesata. Un uomo che se ne vuole andare. Un pugile mascherato che si allena nei 25 metri quadri della sua stanza e osserva gli altri in televisione, mangiando patatine, come in un circuito chiuso spazio-temporale senza via d’uscita.

È un film infestato da fantasmi, che camminano come automi, gli occhi bassi, biascicano frasi spesso indecifrabili, vivono esistenze incomprensibili anche a se stessi. Spettri braccati da un passato di instabilità psichica, che si trascinano in spazi claustrofobici e sembrano dire: attenzione, c’è un deserto là fuori.

Ombre che diventano ectoplasmi nelle elegiache e delicate immagini sgranate di una cerimonia, la comunione di una bambina: la dolce seduzione della nostalgia, l’impazienza di accedere al passato o l’impossibilità di uscirne?

Onirico e allucinato, oscuro e impenetrabile, Giù dal vivo è l’opera di un giovane talento visionario. Non è un film sulle periferie o sul disagio mentale. Non è neppure un documentario. Parla del tempo, del presente spezzato. Della desolazione della condizione umana. Parla di noi.

Festival di Karlovy Vary KVIFF 2019 – Intervista a Nazareno Manuel Nicoletti

Unico titolo italiano in concorso al cinquantaquattresimo Karlovy Vary International Film Festival (28 giugno – 6 luglio 2019), Giù dal vivo si è distinto nella sezione documentari per audacia e complessità.

Il nuovo lavoro del trentunenne campano Nazareno Manuel Nicoletti, a quattro anni dall’apprezzato Moj brate – Mio fratello (Cineasti del presente, Locarno 2015), è infatti un oscuro viaggio nella periferia di Napoli, luogo di dolore e solitudine, specchio di una globalizzazione spietata, girato senza compromessi estetici e narrativi, ma con grande, grandissima fiducia nello spettatore.

Spettatore che, dopo una vorticosa sequenza d’apertura con riprese aeree dei sobborghi napoletani accompagnate dalla voce di un narratore-ipnotizzatore (Massimiliano Gallo), viene letteralmente gettato insieme ai tre protagonisti del documentario – Pasquale, Nunzia e il Pugile – in una quotidianità metropolitana autenticamente spiazzante.

Dove hai incontrato i tuoi protagonisti?

L’incontro è dovuto a mia moglie, che è una psicologa. Dopo il mio primo film, in un momento in cui stavo preparando un lavoro di finzione, mi aveva parlato del laboratorio di scrittura autobiografica che stava tenendo con degli ex pazienti manicomiali. Così sono entrato in relazione con queste persone, e presto mi sono reso conto che ciò che mi interessava davvero non era la questione della malattia ma il loro spiazzamento esistenziale nel rapporto con l’altro. Per me erano figure iconiche, legate in qualche modo anche al mio immaginario cinematografico personale – aspetto che mi ha rapito da subito.

Come hai lavorato con loro?

All’inizio con delle sedute insieme, poi loro si sono aperti con me e ho potuto conoscere la loro vita privata. Il lavoro di scrittura è durato più o meno un anno. Avevo cinque-sei personaggi che alla fine ho ridotto a tre.

Cosa ti aveva colpito in particolare di Pasquale, di Nunzia e del Pugile?

Li ho scelti perché le loro storie raccontavano tutte una cosa che mi sta molto a cuore: la ricerca dell’essere umano di un posto da chiamare casa. E quindi poi ho deciso che il film doveva diventare un viaggio all’interno di una periferia globalizzata, dove c’è appunto uno spiazzamento prodotto dal rapporto con la città e con quello che c’è intorno.

 E’ interessante il modo in cui hai legato, se così si può dire, le storie. I personaggi sembrano guardarsi e riguardarsi, sentendosi costantemente osservati. E in particolare uno di loro, il Pugile, segue gli altri sullo schermo di un televisore.

Sì, sono traiettorie “invisibili”, per citare Calvino. Le storie si sfiorano ma non si incontrano. E dunque i passaggi da una linea narrativa all’altra sono emotivi.

I tre protagonisti di Giù dal vivo vivono situazioni molto diverse ed è significativo il fatto che tu non ti soffermi per niente sul loro passato. Possiamo solo immaginare le loro storie: lo zitellone ormai anziano rimasto a casa con i genitori, la ragazza entrata e uscita dagli istituti di cura... E infine un misterioso uomo mascherato, che sembra vegetare agli arresti domiciliari.

Be’, il Pugile ha avuto esperienze di quel senso in passato, ma oggi è lui che si segrega. E’ lui che non esce.

Dunque uno dei cardini del tuo film è il rapporto con lo spazio, e non solo con la casa. Lo spazio fisico.

Sì, uno spazio che, attraverso un’immersione nel “visivo”, ho cercato di trasformare in spazio mentale. In labirinto, quasi.

La parte forse più spiazzante del tuo film è l’inizio, con la lunga ripresa della città vista dall’alto.

A livello drammaturgico, mi piaceva l’idea di iniziare con un’immersione ipnotica. E quindi ho scritto un testo, che ho fatto recitare a Massimiliano Gallo, che in qualche modo potesse far sì che lo spettatore si lasciasse andare durante la visione. Da lì, di fatto, ho costruito un viaggio di 74 minuti che per me è una sorta di seduta psicanalitica. Mi interessava una struttura polisemica che permettesse diverse strade interpretative.

Be’, già con la maschera del Pugile fai saltare tutte le coordinate.

La cosa importante per me è sempre l’autenticità, la fedeltà ai sentimenti dei personaggi. Non ti nascondo che, per arrivare al nocciolo delle loro storie e liberarle da tutti gli orpelli, non trovo assurda la messinscena. Spesso la messinscena è più vera della realtà. Però, per ottenere questo, c’è prima bisogno di un grosso lavoro documentario. Dopodiché tutto diventa un happening, una performance... Il Pugile è un personaggio paranoico, e nel rapporto con un paranoico c’è sempre un aspetto persuasivo e seduttivo. Lui, per far parte del film, voleva essere sedotto. Allora abbiamo fatto in modo che non risultasse riconoscibile sullo schermo: da qui le maschere, che io ho tratto da alcuni suoi dipinti. Ho ricostruito il suo immaginario.

E lui ne era consapevole?

Lui ne era perfettamente consapevole. E questo lavoro sul suo narcisismo alla fine ci ha permesso di aprire un canale, perché si è sentito coinvolto nel processo creativo.

Con lui hai fatto leva sul narcisismo. Invece immagino che con gli altri due sia stato tutto completamente diverso.

Sì, molto diverso. Con l’uomo, Pasquale, è stato più semplice perché si è immediatamente fidato di me, mi ha subito aperto casa. E infatti l’ho persino accompagnato in questo lungo viaggio da Napoli a Milano che lui fa ogni dicembre – portandosi dietro qualsiasi cosa – per rivedere le due sorelle. Nunzia invece per me è la storia emotivamente più toccante: c’è dietro un vissuto di grande drammaticità che ho volutamente trascurato... Penso si capisca che è un’autolesionista e che è cresciuta con dei genitori che, diciamo, avevano difficoltà a prendersi cura innanzitutto di se stessi.

A un certo punto inserisci nel film un suo vecchio filmato risalente, credo, alla prima comunione... E ti soffermi su un primo piano che è un pugno nello stomaco. Viene automaticamente da chiedersi che cosa le sia successo da quel momento in poi.

E’ proprio la domanda che mi interessava... La vediamo ballare nel filmato e poi dopo, nella struttura: sono balli sempre circolari ma molto diversi. Che cosa le può essere mai accaduto allora?, mi sono chiesto.

In Giù dal vivo non dai risposte però.

Il mio è un film che non risparmia lo spettatore... Gli do una buona dose di responsabilità, e io stesso me la prendo, politicamente ed emotivamente. Nel senso che noi siamo tutti complici di questa situazione. Le periferie che mostro sono il risultato della globalizzazione. Raccontarle – raccontare tutto ciò che spingiamo ai margini delle nostre città – penso sia importante in questo momento storico.

Il clown che faceva ridere Mostar

Cinema. «Mio fratello», Nicoletti debutta al festival di Locarno con un film dedicato a Alberto Musacchio, attore, antropologo e archeologo, morto suicida in Canada qualche anno fa

Locarno, 19.08.2015 - Il Manifesto


Nel concorso Cineasti del presente del festival svizzero che si è appena con- cluso ha trovato spazio Moj brate – Mio fratello di Nazareno Manuel Nico- letti. E per darne conto vale la pena cominciare dalla fine del film, da una frase di Antonioni nei titoli di coda:«Esiste una teoria secondo cui l’uomo vive in uno stato di equilibrio instabile, che con gli anni diventa sempre più stabile, finché raggiunge l’equilibrio, cioè la morte». La frase di un maestro che va a suggellare il lavoro di un allievo, perché Nicoletti ha realizzato questo film nell’ambito del corso «Reportage cinematografico» a L’Aquila per il Centro sperimentale di cinematografia. Budget di 5mila euro per rac- contare una vicenda amara e inquieta nel suo «equilibrio antonioniano», quella di Alberto Musacchio, clown, attore, antropologo e archeologo,

morto suicida in Canada qualche anno fa.

A condurre la ricerca è Stefano Gabrini, regista, docente e soprattutto amico di Alberto. È lui a proporgli di passare dalle clownerie di piazza Navona il giorno dell’Epifania, all’animazione teatrale a Mostar, nella città devastata dalla guerra. Insieme e con Hamica Nametak, ascoltano storie terribili vissute dai loro giovanissimi amici, ma riescono anche a fare affio- rare qualche sorriso e un po’ di speranza in una città che prima dell’orrore aveva sette teatri, dopo aveva solo un cimitero sconfinato alimentato prima dai serbi, poi dai croati e dai bosgnacchi. Un’esperienza che segna chi l’ha vissuta e chi ha cercato di portare lì la propria solidarietà concreta. Diceva Alberto: «Da grande voglio imparare a fare l’angelo per stare sempre vicino ai miei cari». Solo che poi gli angeli perdono le ali e crollano.

Nicoletti non prende scorciatoie, riprende, cura gli effetti, monta, cura il suono e il colore del suo film, utilizza l’obiettivo e sembra lo faccia respi- rare, come fosse un essere umano, vivente, tra gli altri, piazza la telecamera anche in testa alla sua guida, così che i piedi sembrano un’entità lontana, quasi appartengano a un’altra persona, si mescolano e si sovrappongono immagini, lingue, ricordi e silenzi che esplodono nell’unico modo possibile: l’urlo.

Siamo nell’ambito delle emozioni, non delle spiegazioni. Non sapremo mai perché Alberto abbia deciso così (eccesso di sensibilità?) e come suo fra- tello ritrovato dopo anni, Marco, forse molti hanno impiegato anni a per-

donarlo. Lui invece ora dovrebbe essere sereno, le sue ceneri stanno presso un albero in Canada, un luogo che amava, e una parte in un vaso sempre presso una pianta a lui cara a Roma, dopo una vita in equilibrio instabile, anche perché non è facile correre con il monociclo, e Alberto aveva saggia- mente declinato di attraversare il ponte a Mostar quando era una passatoia tremolante dopo la distruzione e prima della ricostruzione.

Moj Brate non ha avuto premi, ma già la selezione a un festival importante lo è. E a Venezia andrà un altro saggio di diploma del corso di reportagedell’Aquila, Zac i fiori del male di Massimo Denaro. Ottimi risultati che hanno ottenuto come un boomerang la chiusura del corso stesso.

Antonello Catacchio

Napoli est su Raiplay, storia surreale di tre vite molto reali.

La rassegna di Canova sceglie Giù dal vivo di Nazareno Nicoletti

Corriere del Mezzogiorno, 18.06.2020

Napoli est, case popolari, Ponticelli, Conocal, San Giovanni a Teduccio: parte da lì Nazareno Manuel Nicoletti per il suo «Giù dal vivo», documentario che in attesa di essere presentato nelle sale, a partire da Napoli, è stato selezionato da «Fare Cinema», rassegna curata da Gianni Canova e promossa dal ministero degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale e organizzata in collaborazione con Mibact, Anica, Ica e Istituto Luce Cinecittà. In era pre Covid il programma prevedeva eventi in tutto il mondo, in era pandemica dal 21 giugno sarà tutto su RaiPlay: film, documentai, cortometraggi, masterclass di Gianni Canova e Gianfranco Angelucci e videolezioni di professionisti del cinema. E lì arriva anche la Napoli Est di Nicoletti, classe 1988, napoletano nato a Ischia: «Mia moglie lavora nel centro diurno La Roccia - racconta - è una psicoterapeuta. In questo presidio di salute mentale abbiamo fatto prima laboratori 99 Arci Movie porta in una rassegna mondiale un docu girato in due anni 1Vlassimi]iano Gallo, voce narrante Musiche di Marco Messina e Sacha Ricci di scrittura autobiografica, poi filmico-rappresentativo. Ho diviso i ragazzi in gruppi e da questi ho scelto tre personaggi con i quali ho iniziato un percorso di cinema del reale. Li ho seguiti e ho creato un rapporto con loro per oltre due anni». Chi sono i tre protagonisti? «Persone accomunate dal desiderio di trovare un posto da chiamare casa: eroi drammatici in un contesto complesso. C'è una venticinquenne che dal centro rientra a casa per un pranzo. Vive al rione De Gasperi, Lotto zero. La sua è una famiglia complicata: sarà un pranzo muto; l'altro ragazzo è di San Giovanni e ogni anno, a Natale, raggiunge con il padre le sorelle a Milano, sono come Totò e Peppino. Il terzo protagonista è mascherato e ha un punto di vista privilegiato: segue le vite degli altri due attraverso la tv». E cinema del reale, dunque, ma con una cifra surreale. Piccolo budget ma grande passione che ha contagiato bravi professionisti: MassimiLa rassegna di Canova sceglie «Giù dal vivo» di Nazareno Nicolet1i liano Gallo, voce narrante nel film; Marco Messina e Sacha Ricci che hanno curato la colonna sonora originale; Giuseppe Riccardi aiuto regia e suono in presa diretta; Marco Saitta al sound design; Simona Infante per la color grading; Maica Rotondo makeup designer e Davide Ciaramella, Maria Teresa Panariello che ha seguito l'organizzazione generale. Il film è prodotto da Arci Movie, a cura di Antonio Borrelli con Parallelo 41 Produzioni di Antonella Di Nocera. Storia, topografia e produzione ci rimandano a quella fucina di cultura e talenti che è Arci Movie, la storica associazione nata Ponticelli nel 1990 che aspetta di riprendere le tante attività cinematografiche, dalle arene estive al cineforum alla sala Pierrot. Nicoletti non è al suo primo passo. Con il documentario d'esordio «Moj Brate - Mio fratello» nel 2015 era stato selezionato al Festival di Locarno mentre con «Up to Down» («Giù dal vivo» in inglese) è stato in concorso al Karlovy Vary Film Festival, ha vinto il Rough Cut Lab a Visions du Réel di Nyon ed è stato tra gli altri al Filmmaker Festival di Milano, al Laceno d'Oro si Avellino e al Docs for sale dell'Idfa di Amsterdam «Il film - dicono i produttori - osserva la periferia urbana entrando pian piano nelle vite dei personaggi con la voglia di partire dai margini, senza retorica e senza oleografia, ma con la bussola orientata al rispetto della delicatezza di situazioni di vita complicate e problematiche e, al tempo stesso, rivolta a una sperimentazione cinematografica ambiziosa e intraprendente». «In Giù dal vivo — conclude il regista Nazareno Nicoletti - volevo restituire il senso di estraneità provato quando ho scoperto d'essere anch'io permeabile al pregiudizio. Non è però un film sulle sulla patologia o sulle miserie umane, è un documentario sull'allucinazione».

Natascia Festa

Moj brate – Cronaca di un uomo

Presentazione a Locarno, Pardo Live

Alberto Musacchio ha vissuto a perdifiato, è stato artista di strada, attore, archeologo, scrittore, poeta, viaggiatore. Ovunque il suo corpo agile e il suo sguardo dolce e ironico – da Roma a Mostar al Canada – ha intessuto rapporti profondi e drammatici. Alberto ha scelto di suicidarsi. Alberto è Moj brate – Mio fratello, una detection romantica e analitica che prova a ricostruire il mosaico che accomuna la vita interiore dello scomparso e i vuoti pesantissimi di chi lo ha perduto.

Chi è il narratore della vicenda? Nazareno Manuel Nicoletti, qui all’opera prima, gioca

  sulla dialettica fra racconto in prima persona – duro attento e senza pregiudizi, come sempre dovrebbe essere il passo di un osservatore – e la fitta trama di punti di vista di chi, in vita, ha incrociato Alberto. Nessuno è in grado di spiegarsi davvero il suo gesto, al punto che lentamente il vero soggetto del film diventa proprio questa domanda senza risposta, l’interrogazione della vita propria attraverso la sparizione altrui.

Il reale è sempre ineffabile e illusorio, si dirama nei materiali che operano a cuore aperto sul corpo stesso del film: repertorio, vecchi vhs con le riprese dei laboratori teatrali per adolescenti che Alberto organizzava in Bosnia poco dopo la fine della guerra civile, spezzoni di film, lettere d’amore, una sinuosa e indagatrice GoPro montata sul capo di Stefano Gabrini, che aveva a sua volta diretto Alberto nel film Il gioco delle

ombre (1991). Così è la vita, tanto impetuosa quanto dispersa, disseminata. Come le ceneri di una persona cara sparse in più punti del mondo, a mettere radici qui e altrove.

#Locarno68 – Nicoletti e il cinema che

prolunga la vita in Moj brate. Mio

fratello

Sentieri Selvaggi, 14.08.2015

Cosa può restare oltre ai ricordi? Foto, immagini, testimonianze. Per prolungare la vita di chi ci ha lasciato dipende come sono assemblate, raccontate, vissute. Il sorprendente esordio di Nazareno Manuel Nicoletti riesce nell’intento. La figura diAlberto Musacchio, l’attore, clown, archeologo e ricercatore universitario morto suicida nel 2001 lascia un segno preciso, quasi dirompente. La sua corsa sul monociclo sotto la pioggia diventa un’immagine ricorrente anche quando non è sullo schermo, le sue foto riprendono vita

  anche attraverso le testimonianze vissute di chi l’ha conosciuto e si ri/forma un’esistenza avventurosa e difficile come la scoperta di avere due fratelli quando aveva 14 anni.

Non è un semplice viaggio nella memoria Moj brate o almeno non lo è soltanto. È invece un lavoro dove la materia stessa dell’immagine porta numerose ferite. Il fantasma di Alberto sembra essere la fantasmatica dissolvenza nascosta anche quando vengono inquadrati gli alberi, il paesaggio spoglio del Canada e soprattutto i bambini della stessa Mostar davanti ai quali Alberto si esibiva. Il frammento d’archivio è senz’audio. Conta il corpo del protagonista, scomparso e improvvisamente riacceso, conta l’accumulo della ricerca delle tracce emotive da parte di Stefano Gabrini – che aveva diretto Alberto in Il gioco delle

 ombre del 1989 – dove escono dalla polvere anche le lettere d’amore e tracce del passato sentimetale di Alberto. La ricerca stilistica a tratti può apparire un po’ aspra (l’insistenza delle mani nella terra del vaso o i corpi sovrimpressi sull’immagine), ma il lavoro di Nicoletti mette comunque in luce uno sguardo originale nel modo in cui mette in stretta connessione passato, presente ed eternità, con una ricerca che forse si potrebbe essere ispirata – nella manipolazione dell’immagine stessa dove suono e visivo sono come mescolati e restituiti sullo schermo sotto un’altra forma – a Lucchi-Gianikian. C’è poi un lavoro significativo sui luoghi. Se ognuno di quelli che abbiamo visto e vissuto segnano la nostra vita, qui quelli filmati sembrano a loro volta segnati dalla presenza di Alberto. Come

 se fossero stati quegli spazi ad essere andati verso di lui.

In Films From the Balkans, Archival Footage Bears Witness to War

The analog essence of poor images, in the trembling consistency of tape recordings, informs another film presented at Locarno in the same section. "Moj Brate (My Brother)," the debut work of Italian filmmaker Nazareno Nicoletti, collects some of the important elements discussed so far — brotherhood, distance from the homeland, the Yugoslavian fragmentation — in the story of Alberto Musacchio. Musacchio, who took his life in 2001, was a juggler, actor, poet, archeologist who lived his life to the fullest. After his relocation to Canada, his friends and family in Italy lost his traces: in this sense

 the film results in a search for truth. Unfortunately the final outcome — regardless of the great human story and archival footage — is rather badly composed. There are indeed the premises for a fascinating study of a common yet complex man, but the cinematic representation annoyingly intoxicates the original material to its core. Different types of visual formats intertwine with the apparent intent of animating the rhythm of narration, while interviews, pensive voice-overs and an insistent music score covers the information we are so keen on collecting. Stefano Gabrini — a close friend of Musacchio's and Nicoletti's professor at film school — is hungry for solo appearances and contributes in making the documentary even more aesthetically incoherent with passé GoPro recordings. We learn that Gabrini and Musacchio spent several months in Mostar carrying out acting workshops with the kids of the city. The footage from those years is the most touching part of "Moj Brate" as well as revealing of Musacchio's human quality, but the documentary doesn't do justice to his legacy as artist and volunteer.

Laceno d’Oro 44 – Giù dal vivo, di Nazareno Manuel Nicoletti

In Concorso alla 44a edizione del Laceno d’Oro (1-8 Dicembre), Giù dal vivo, scende nella vita reale della periferia di Napoli e ne riemerge con uno straniante ritratto/interpretazione

Un dettaglio. Uno di quelli su cui nemmeno la macchina da presa indugia, ma che salta all’occhio dello spettatore fino a quel momento felicemente frastornato da una narrazione senza rete (narrativa) di sicurezza: un pesce rosso che galleggia in un’insalatiera piena d’acqua. Come se i protagonisti di Giù dal vivo, in Concorso alla 44esima edizione del Laceno d’Oro, volessero provare a ripetere le forme “normative” della società attraverso un processo di mimesi inevitabilmente ritorto dalla loro essenza freak. Le loro esistenze sono seguite dal regista Nazareno Manuel Nicoletti con le forme visuali del crudo documentario (e quindi long-take statici, lenti deformanti, primissimi piani su volti abbrutiti) ma raccontate su schermo assumono modi finzionali in grado di sconvolgere l’apparente naturalismo delle riprese.

Siamo nella periferia di Napoli Est indagata nella potente scena iniziale dal God’es eye view di un drone che con un morbido volo che mostra un disordinato insieme di palazzoni rossi minacciati dai lotti abusivi di cemento armato in crescita ancor più caotica.Punteggiata dal commento dell’attore Massimiliano Gallo e con la musica elettronica di Marco Messina e Sacha Ricci questa sensazione di rifiuto delle regole trasmigra dal lato ambientale a quello umano. A più riprese scopriamo infatti l’allenamento di un pugile col viso sempre protetto da una miriade di maschere di cartone finemente lavorate che s’allena esclusivamente dentro la sua stanza per dare massa priva di definizione ad un corpo istoriato dai tatuaggi. Il suo background non ci viene svelato, seguiamo piuttosto le sue asettiche e mute sessioni fino all’esplosione verbale di un monologo pieno di forza tonale ma privo di contenuto. Scopriamo così che ad essere letale non era lui nè tantomeno l’altro protagonista dell’opera, il giovane in cura in una struttura psichiatrica, ma il contesto nel quale essi sopravvivono senza senso e senza scopo alcuno. Uno straniamento al proprio luogo d’origine che trova splendida esemplificazione con la gita fuori porta dell’anziano a Milano che crede che il piccione non venga a beccare le sue mollichine perché non riconosce le mani lombarde del suo benefattore. Giù dal vivo scende nell’abisso delle vite di queste persone che sembrano trascinarsi ad un ritmo più lento di del nostro, pedinandole senza mai invadere il loro astruso spazio vitale. Nazareno Manuel Nicoletti usa gli stilemi del cinema di denuncia neorealista e al contempo ci sorprende con una regia quasi fiabesca, pronta a farsi sorprendere senza cupezza da sprazzi di solitaria e irrimediabile desolazione. Perché è solo dopo aver toccato il fondo che si può risalire.

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